martedì 21 dicembre 2010

L'inganno dell'unità d'Italia

Centocinquanta anni di unità d’Italia non sono riusciti ad appianare le differenze tra la parte meridionale e quella settentrionale; differenze emerse subito dopo l’impresa dei Mille, quando sul mezzogiorno calò il manto opprimente del potere sabaudo, col suo volto militare e coloniale. La casa regnante sfruttò l’occasione irripetibile di ampliare il suo regno oltre ogni limite e aspettativa.
Ci furono gli eccidi di Bronte e di Fantina, e tanti altri episodi in cui il senso dello Stato nascente venne imposto attraverso fucilazioni e lutti alle masse ribelli, colpevoli di avere anticipato una rivoluzione che non era nei programmi. Non a caso la strada a Garibaldi venne spianata dalle squadre rivoluzionarie di internazionalisti e sovversivi, senza i quali non vi sarebbe state nessuna Marsala e nessuna Calatafimi.
Sotto i Borboni non si era sud di nessun nord, e Napoli come Palermo erano capitali europee di cultura e di arti, crocevia di commerci e centri di industria. La borghesia dominava assieme all’aristocrazia e convivevano sacche profonde di feudalesimo a spinte moderniste nel campo della finanza, dell’innovazione industriale, del commercio. La sconfitta del regno delle Due Sicilie diede inizio ad un’autentica e cinica opera di conquista coloniale, le cui tappe sono state: la rapina delle materie prime, l’assoggettamento del settore industriale e bancario e il suo progressivo smantellamento; la deportazione della forza lavoro; la leva militare obbligatoria di sei anni; la repressione violenta e militare di ogni movimento di resistenza.
Nelle pieghe di uno Stato colonizzatore che aveva un solo interesse: dominare e rapinare i nuovi territori, si inserì e crebbe la criminalità mafiosa che trovò anch’essa la sua occasione storica per assurgere a soggetto politico-economico nonché referente territoriale del nuovo potere piemontese. Il popolo meridionale ha fiutato subito l’inganno unitario e ha continuato l’insurrezione iniziata con Garibaldi (idealmente legata ai moti del ’48 la cui venatura indipendentista era molto forte), già nel 1866 con la rivoluzione anti-piemontese del “sette e mezzo” con il brigantaggio del sud continentale, con i moti insurrezionali dei fasci dei lavoratori; è stata una lunga resistenza oggettivamente anti-unitaria.
Nell’unità d’Italia la borghesia settentrionale ha svolto la sua opera di rapina attuata con strumenti di tipo coloniale volti a perpetuare la subalternità coloniale ed un sottosviluppo di tipo organico e funzionale ad i modelli di sviluppo delle regioni del nord. Oggi il leghismo sta completando l’opera iniziata 150 anni fa, trasformando, paradossalmente, i meridionali in veri paladini dell’unità, patrioti in lotta contro il secessionismo del nord, difensori della conquista militare sabauda. Il federalismo fiscale e/o politico, spinto dalla lega nord, rappresenta la licenza per continuare a perpetuare la dicotomia nord-sud a tutto vantaggio dell’area ricca del paese; ma visti dal sud, autonomie e federalismo possono rappresentare uno sbocco ad una situazione caratterizzata dalla cancrena di una subalternità economica-politica-culturale ma anche psicologica. Un occasione da giocarsi fino in fondo, a patto di liquidare ogni politica frontista ed ogni tentazione sicilianista o meridionalista intruppata dentro richiami all’appartenenza e al sangue.
Oggi si può ripartire dall’autonomia e dal federalismo, ma non ha nessun senso se essi sono strumenti per affermare una qualsiasi egemonia politico-economica. Avrebbe senso solo se le classi subalterne si riappropriassero della capacità politica di autogestirsi i propri problemi, rendendo in un sol colpo il ben servito alle elites dominanti “autoctone” (ecco il concetto di autonomia) e instaurando una relazione egualitaria e solidale con le regioni del centro e del nord (ecco il federalismo) che ristabilisca gli equilibri devastati da 150 anni di colonizzazione. Ma questo non si può attuare senza fare i conti con il capitalismo e con l’autoritarismo statale, principali ostacoli sulla via di qualsiasi percorso verso la libertà.
La questione unitaria italiana rimane intrecciata a tutti gli effetti con la questione sociale. Non considerarla tale, porta a naufragare nel regionalismo interclassista che mistifica gli interessi e fonda false comunioni tra dominanti e dominati, rafforzando nuova elite nazionali senza risolvere il problema dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo.

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